se fossi un'automobile...

... sarei una FIAT 850. Ve la ricordate?

giovedì 26 febbraio 2015

La parola a Mr. Job (16)

Fiasco Romantico, Cielo Nero e Cuore Divino


Buongiorno a tutti.

L’ultima volta che ho “esternato” su questo blog risale a poco più di un anno fa.
Il tempo passa, ma la situazione economica italiana è ancora da pieno sottosviluppo. Anzi, lo è sempre di più, malgrado i proclami di fantasmagorici cambiamenti che sarebbero “ormai alle porte” (negli ultimi 20 anni non abbiamo sentito altro, senza vedere assolutamente niente), e malgrado il pessimo ottimismo risciacquato che molti pseudo politici continuano a vomitare a pioggia sulle teste della gente (anche questa pratica ci ha riempito i cervelli, le orecchie e soprattutto le palle negli ultimi 20 anni). Bisognerebbe che tutti gli italiani, ogni giorno, mandassero una mail alle due camere del parlamento e una al governo. Ogni giorno sempre la stessa mail.
Con lo stesso testo: “Non crediamo a una sola parola di quello che dite, anche perché sappiamo con certezza che voi siete i primi a non credere a una sola parola di quello che dite”.
Comunque, mentre in questi ultimi mesi sto cercando di perfezionare un accordo che potrebbe riportarmi a pubblicare sulla carta stampata, continuo a ricevere miliardi di lettere e di mail.
Chi mi scrive? Sempre e solo persone comuni che vorrebbero vivere con dignità, grazie ai frutti del proprio lavoro. Purtroppo il fisco, lo Stato e altri simili “entità” portatrici di sventura, carestia e indicibili disgrazie si inventano di tutto per impedirlo.
Ma le piaghe che affliggono questa Italia derelitta non sono solo di natura fiscale e statale. Ci sono anche quelle di natura umana che provengono da “certe” categorie di persone.
Per farvi solo un esempio, ho scelto questa lettera:

Caro Mr. Job, mi chiamo Ilda. Sono nata a Ostuni, la città dove ho sempre vissuto e dove lavoro. Ho 39 anni e sono un copywriter (scrivo testi per la pubblicità). Da 15 anni lavoro in coppia con Renato, un bravissimo art director. Insieme a lui, mi occupo di comunicazione pubblicitaria.
Come tutti i professionisti, in tanti anni di lavoro mi sono capitate cose e persone di ogni genere. Tuttavia, sarà anche per via della crisi economica che ormai dura da otto anni, penso di essere sul punto di perdere la pazienza.
Qualche settimana fa, un cliente è venuto nel nostro studio.
Un produttore di vino.
Ci ha chiesto di pensare ai nomi di otto nuovi vini da imbottigliare e alla grafica delle etichette.
Benissimo. Dare il nome a un prodotto è uno dei lavori che amo di più. Io e Renato gli facciamo il preventivo. Lui storce un po’ il naso. Eppure siamo stati bassi. Il prezzo è inferiore (anche in termini assoluti) a quello che gli avremmo fatto nel 2007. Lui ci chiede uno sconto. A malincuore ci tagliamo un’ulteriore fettina di culo (lei si può immaginare, caro Mr. Job, quante fettine di culo ci siamo dovuti “asportare” in questi anni, tra clienti che vogliono lo sconto, clienti che non pagano per niente e un’infinità di tasse truffaldine che crescono in maniera oscena e ingiustificabile, a prescindere dal volume di lavoro sviluppato).
Dopo qualche giorno, io e Renato presentiamo al cliente due diverse proposte per gli otto nomi dei suoi otto vini. Lui non legge il documento in cui ci siamo sforzati di illustrare il lavoro di ricerca svolto e le motivazioni delle scelte fatte. Non ascolta neppure la presentazione “orale” che io e Renato gli facciamo. Mentre noi gli parliamo, lui risponde a una trentina di sms (o messaggi WhatsApp). Risponde tre volte al telefono: sua madre, sua moglie e un amico con cui ha una partita di calcetto l’indomani alle 20,30. Alla fine della presentazione ci dice che non abbiamo colpito nel segno.
Non abbiamo centrato il cuore delle sue esigenze. Ma non importa, lui ha già la soluzione. Ha parlato con sua moglie e lei gli ha proposto tre ottimi nomi. Un altro paio glieli ha proposti sua madre. Quella santa donna sì che capisce lo spirito dell’azienda! Non come me e Renato che, alla fine, facciamo questo lavoro solo per essere pagati. I tre nomi mancanti li ha in testa lui. In realtà ce li aveva in testa già da prima di commissionarci il lavoro, e io gli avevo detto che era nel suo interesse lasciar perdere perché dovevamo inserire gli otto nomi in un discorso “di gamma”, e quindi andava fatto un lavoro di ricerca a monte per poi trovare i nomi a valle e non viceversa.
Non c’è stato modo di fargli cambiare idea, anche perché questo genio del marketing non aveva altro tempo da perdere con noi. Quindi a noi non restava che impaginare quegli otto nomi che lui e le sue donne avevano deciso. Robe tipo Fiasco Romantico (un nome, una garanzia), Cielo Nero (sinistro presagio) e Cuore Divino (l’apoteosi della banalità), solo per citarne tre.
Morale della favola: il genio del marketing ha tagliato di netto il compenso per la creazione degli otto nomi, dato che il lavoro lo aveva fatto lui. E, qualche settimana dopo, quando ha capito che nessun consumatore si sarebbe filato le sue nuove bottiglie, si è pure incazzato con noi. Questo è accaduto dopo che le otto bottiglie sono rimaste esposte inutilmente negli scaffali dei negozi con il 50% di sconto-lancio. La motivazione? A causa della “grafica non adatta”, i suoi otto nomi non hanno avuto la giusta rilevanza. Risultato: il compenso, già scontato in partenza, ha subito un ulteriore taglio e il nostro lavoro è stato deturpato dai quei nomi indecenti.
Neanche a dire che il cliente è da considerarsi perso. E, forse, dopo quanto le ho raccontato, questo è l’unico dato positivo della storia. Lei che ne pensa?

Penso che in Italia ci siano pochissime persone capaci di stare al proprio posto.
Penso che in Italia ci siano pochissime persone capaci di capire quale sia il proprio posto.
Penso che in Italia ci siano pochissime persone capaci di occuparsi al meglio del proprio lavoro.
Penso che in Italia ci siano pochissime persone capaci di affidarsi al lavoro degli altri.
Penso che in Italia ci siano pochissime persone capaci di riconoscere il lavoro degli altri.
Penso che in Italia ci siano pochissime persone capaci di rispettare il lavoro degli altri.
Penso che in Italia, oltre a esserci 60 milioni di allenatori di calcio, ci siano anche 60 milioni di pubblicitari convinti di saper scrivere, di saper fare grafica e di saper fare siti web.
Penso che l’Italia sia uno dei bacini di analfabetismo di ritorno più grandi del mondo.
Anzi, di sicuro è quello più grande.
Penso che se l’arroganza e l’ignoranza fossero beni monetizzabili, l’Italia sarebbe il Paese più ricco del mondo. Ma per sfortuna sua (e per fortuna di tutti gli altri) l’arroganza e l’ignoranza sono due dei più evidenti indici di povertà e di sottosviluppo di una nazione.
Peccato.

mercoledì 11 febbraio 2015

Parola di Zoff.

Dino Zoff, portiere, allenatore, presidente, figlio,
marito, padre, nonno e, soprattutto, uomo.
Piccola premessa.
Non scrivo questo post per fare una recensione del libro che Dino Zoff ha da poco pubblicato (Dura solo un attimo, la gloria - Mondadori, 2014).
Scrivo questo post perché da tempo sento il bisogno di scrivere sul mio blog, dopo tanti mesi che non ho aggiunto nemmeno una riga.
Qualche settimana fa ho cominciato a scrivere una roba su alcuni aspetti della vicenda di Charlie Hebdo, ma poi non l’ho conclusa.
Non era la cosa giusta per ricominciare.
Stavolta invece sono sicuro di avere l’argomento adatto. E chi avrà la pazienza di seguirmi, capirà il motivo. Ma vi avverto… non mi interessa se ne verrà fuori una roba lunga.
E bene che vi ribadisca che questo non è facebook (per fortuna o grazie a Dio).
Questo non è twitter o qualche altro social del cavolo.
Questo è il mio blog.
E i post che ci scrivo sono lunghi quanto mi pare e quanto basta.
Se non volete leggerli, non tirate fuori la scusa che sono troppo lunghi.
Troppo lunghi per chi?
Troppo lunghi per cosa?
Troppo lunghi per quale legge o norma o teoria?
Forse che Tolkien, quando ha scritto Il Signore degli Anelli, si è messo il problema di non farlo troppo lungo?
Fanculo ai social network e a come stanno semplificando e amputando il mondo, le persone, il linguaggio e i rapporti sociali. Fanculo all’ennesima potenza.
Quando ho qualcosa da dire, la dico come sta bene a me. Comando io e non gli standard imbecilli di facebook o di twitter.
Chi cavolo è il demente che ha inventato la stronzata secondo la quale bisognerebbe dire quello che si ha da dire in meno di 150 caratteri? Fanculo anche a lui.
Fine della premessa.

15 settembre 2014, una data che non potrò mai dimenticare.
Il 29 agosto 2014 ho pubblicato quello che, fino a oggi, era l’ultimo post.
L’ho scritto poco prima di cominciare la (bella) avventura di Bimbi a Bordo, il festival della letteratura per ragazzi che si tiene ogni anno nel comune di Guspini (VS). In quei giorni, Flavio, mio padre, era in ospedale per l’ennesimo aggravarsi della sua malattia. Era stato ricoverato il giorno di ferragosto.
Per tre giorni ho fatto su e giù dal paese dove abito a Guspini, in modo da onorare i miei impegni di “ospite attivo” del festival. E ancora, da Guspini all’ospedale di San Gavino, all’ora di pranzo. Poi di nuovo a Guspini, nel primo pomeriggio e fino a tarda sera. Poi di nuovo al paese per la notte.
Sono stati giorni di colori, di emozioni, di sorrisi e di preoccupazioni. Sono stati giorni di stimoli continui. Quelli che alla fine ti stancano dentro. Soprattutto se arrivano a fine estate, quando non hai ancora staccato davvero la spina e vivi da circa due anni in una situazione di lavoro drammatica e indecente, più che precaria. Una situazione carica di problemi enormi, dubbi assassini e preoccupazioni gigantesche per te e per chi vive insieme a te.

Qualche giorno dopo il festival di letteratura per ragazzi, Flavio è stato dimesso e io sono partito per una pseudo vacanza di qualche giorno. Una vacanza con “mille freni a mano tirati”, a causa dell’assenza totale di disponibilità monetaria. Ma bella, nella sua assenza di pretese.
Momenti di serenità. Finalmente.
Al termine di quel breve mucchietto di giorni, ecco la chiamata di mia madre. Flavio è di nuovo all’ospedale. Sembra che la situazione, stavolta, sia ancora più grave.
Il viaggio in nave. L’arrivo in Sardegna oltre la mezzanotte.
La cavalcata notturna in macchina, da Olbia fino al sud dell’isola.
Quando arriviamo a casa, una buona metà della notte è andata.
Una doccia. Meno di tre ore sul letto col telefono a tiro.
Poi di nuovo a cavallo delle mie quattro ruote per andare da Flavio, all’ospedale.
È il 14 settembre. L’estate 2014 non ha nessuna intenzione di mollare. Anzi, sembra che sia ben determinata a durare ancora a lungo. E così sarà, infatti.
Arrivo all’ospedale con mia madre e mia sorella.
All’ora di pranzo sembra più o meno tutto sotto controllo.
All’ora di cena no. Per niente.
Non lo abbiamo mai visto così. Non riesce nemmeno a parlare. Neanche una parola.
È il caso che un familiare rimanga con lui.
Resto io.
Più o meno all’una di notte la situazione diventa gravissima. Irreparabile.
All'inizio di quel 15 settembre Flavio non c’è più.
I pensieri.
I rimpianti.
I bocconi amari.

Il libro di Zoff.
Da quel momento, e per tanto tempo, ho dovuto cambiare la mia lista delle priorità.
Ho dovuto lasciar perdere una lunga serie di cose, tra cui, naturalmente, questo blog.
E, anche quando è passata l’onda di piena dei primi mesi, non ho più trovato il guizzo giusto per ricominciare a scriverci.
Poi vengo a sapere che Zoff ha scritto un libro.
Dino Zoff.
Il grande portiere. Il grande capitano. Il grande mister.
Il grande silenzio, mi verrebbe da aggiungere. Giusto per accostarlo scherzosamente al personaggio principale (il muto) dell’omonimo film western di Sergio Corbucci datato 1969, con Jean Louis Trintignant e Klaus Kinski.
Ma stavolta Zoff ha parlato. O meglio, ha fatto parlare la sua penna o la tastiera del suo computer, aiutato, come ci rivela lui stesso nei ringraziamenti finali, dal giornalista e scrittore Marco Mensurati. Un amico di suo figlio.
Sono venute fuori parole degne di essere lette. Perché uno che parla poco, di solito, quando parla ha qualcosa di importante da dire.
L’ho acquistato.
L’ho letto.
Sarebbe piaciuto anche a Flavio.
Non è che lo immagino. Lo so.
Flavio aveva quella stessa filosofia. Dallo sport alla vita, senza soluzione di continuità. Ciò che “io” sono in campo, sia da giocatore che da allenatore, sia da presidente che da tifoso, è sempre una parte di “me”. Di quel “me” autentico, che non ha bisogno di decidere come apparire per manifestarsi. Basta che io lo lasci manifestare per quello che è.
E allora se il “me” è onesto, manifesterà la sua onestà, anche quando gli eventi lo costringeranno a escogitare una strategia per vincere a tutti i costi.
Se invece il “me” è un pagliaccio stronzo, si manifesterà da pagliaccio stronzo. Esattamente come quando Berlusconi diede dell’indegno al CT Zoff dopo la finale dell’europeo 2000 in Olanda e Belgio, persa immeritatamente con la Francia per via del golden gol di Trezeguet. Zoff ci aveva portati a quell’europeo con un buon girone di qualificazione e un percorso di tutto rispetto alle fasi finali, fino alla finalissima di Rotterdam contro la Francia.
Berlusconi che dà dell’indegno a Zoff.
Incredibile.
Paradossale.
Rivoltante.
Ignobile.
Il mondo che va all’esatto contrario di come dovrebbe.
Nemmeno il comico più arguto o il matematico più brillante avrebbero potuto immaginare questa situazione. Né forzando all’inverosimile una battuta (il comico), né chiedendo l’impossibile alla teoria delle probabilità (il matematico). E invece…
Zoff con Enzo Bearzot, "Il Vecio" condottiero che guidò gli azzurri
alla conquista della Coppa del Mondo in Spagna, nel 1982.


La politica è politica. L'idiozia è idiozia. La dignità è dignità.
Intendiamoci.
Non mi sono mai occupato di politica in questo blog. Non voglio cominciare certo oggi. E non ho intenzione di farlo da qui alla fine di questo post.
Per inciso, credo che neanche Berlusconi, in vita sua, si sia mai occupato (o voluto occupare) di politica. Si è occupato di tantissime cose. Un numero incalcolabile di cose. Ma non di politica. Mai. Nemmeno all’apice della sua carriera politica.

La riflessione che ho fatto sulla famosa frase che spinse Zoff a dimettersi dal ruolo di CT della nazionale di calcio, l’ho fatta solo per soffermarmi sul lato umano di Zoff. Sul suo carattere. Sulla sua sensibilità. Sulla sua qualità più indiscutibile, vale a dire LA DIGNITÀ (ma tu guarda!).
E sul valore delle parole. Che sono roba importante e come tali vanno pesate, scelte e proferite.
Zoff, Causio, il presidente Pertini e Bearzot giocano a Scopone Scientifico sull'aereo
che riporta la nazionale in Italia, dopo la conquista del titolo mondiale nel 1982.


L'anima dello sport.
Il libro di Zoff non è un capolavoro.
A cominciare dal titolo che (sicuramente è una mia fisima) ha qualcosa che non mi convince.
Certi passaggi probabilmente avrebbero avuto ancora bisogno di qualche ripulita.
Ma non è questo il punto.
Il punto è che il libro mi è piaciuto. Mi è piaciuto molto.
E mi ha fatto pensare a mio padre. Me lo ha, in un certo senso, reso. Ridato. Restituito.
Il punto è che ci ho rivisto dentro Flavio. Un uomo che, come il grande Dino, sognava un calcio diverso. In mano a gente diversa. Sulle bocche (e sulle penne) di persone diverse.
Insegnava cose diverse ai suoi allievi (centinaia), rispetto a quelli che sono diventati, oggi, gli obiettivi e i "valori senza nessun valore" di questo sport. O di questo spettacolo, dato che di sport non gli è rimasto quasi nulla. Uno spettacolo molto triste.
Mi permetto di copiare (qui sotto, in corsivo) un passaggio del libro di Zoff.
Un passaggio che io ritengo di immensa importanza per il significato di quello che esprime. Tutti gli uomini di sport dovrebbero stamparsi queste parole a fuoco nel cervello e anche dentro le palpebre. Così da poterle avere sempre presenti, anche quando chiudono gli occhi.

"Ho sempre considerato il calcio un insieme di valori indiscutibili: l’educazione, la crescita della persona come individuo singolo e come parte di una squadra, la lealtà e la correttezza, l’autodisciplina, la capacità di riconoscere i propri limiti e la voglia e la fatica di provare a superarli, l’affannosa ricerca dell’equilibrio tra uomo e atleta. Questo ho sempre pensato fosse il senso dello sport cui un giorno lontano, su un campo pieno di pozzanghere, in Friuli, decisi che avrei dedicato la vita. E per questo ho lavorato e vissuto, prima come uomo, poi come atleta e infine come «campione», termine che non è sinonimo di grande giocatore o di fenomeno, come lo si usa oggi, ma un sostantivo ben preciso, che indica alcune qualità e prescrive un’infinità di obblighi, a partire da quello di dare l’esempio a chi campione non è. Una specie di condanna, se vogliamo dirla tutta.
Credo che se lo sport fosse fatto solo per lo spettacolo, come tutti ormai pensano, non avrebbe senso mandare figli e nipoti a giocare al campetto sotto casa. Perché quella attività non vale nulla, o comunque poco, di certo non abbastanza: lo sport migliora l’uomo, lo spettacolo si limita a divertirlo. Io la penso così. Mentre il mondo va in tutt’altra direzione, valorizzando l’apparenza, la chiacchiera, la forma. Lo spettacolo, appunto. A scapito della sostanza. Gli insulti a Bearzot, i riconoscimenti postumi e tardivi a Scirea erano segnali chiari, che forse avrei dovuto cogliere prima in tutta la loro potenza. E invece…"

I valori del calcio come sport.
I concetti (quasi antitetici) di sport e di spettacolo.
Il concetto di «campione».
I concetti (questi sì, assolutamente antitetici) di sostanza e di forma.
Tutte cose che oggi passano come riflessioni pallose, vecchie e superate.
E che invece sono le chiavi di volta per capire quello che non funziona e che ha fatto piombare il calcio in una crisi irreversibile. Bisogna ripartire proprio da queste cose per individuare tutto quello che va eliminato senza pietà (ed è tanta roba, ormai), se si vuole di nuovo riportare il calcio in una dimensione di autenticità e di bellezza.

Giocatori: al posto dei tatuaggi, scrivetevi queste parole di Zoff sulla pelle.
Allenatori: prima di fare o di dire qualsiasi cosa, perfino prima di pensare, leggetevi queste parole. E leggetele anche ai vostri ragazzi nello spogliatoio, in campo, in ritiro.
Presidenti, dirigenti, politici e giornalisti: anche voi, oltre a lavarvi i denti dopo ogni pasto, sciacquatevi la bocca e il cervello con queste parole.
Lo spirito di queste parole dovrebbe guidare tutte le persone che hanno a che fare con il calcio, a tutti i livelli. Chi vive di calcio. Chi vorrebbe viverci e lotta per diventare un professionista. Chi semplicemente si diverte con il calcio, giocato o guardato. Chi parla e scrive di calcio.
E non solo di calcio, ma di sport in generale.
Gaetano Scirea e Dino Zoff, compagni di squadra nella Juventus e nella nazionale.
Colleghi alla guida tecnica della Juve fino alla prematura scomparsa di Scirea (1989).
I due furono soprattutto grandi amici nella vita.


La Serie A non c'entra.
Ho scritto questo post perché ho riconosciuto mio padre in moltissimi passaggi del libro di Zoff.
Avrei voluto che Flavio lo leggesse. Così certe sue amarezze si sarebbero sentite per lo meno in buona (e illustre) compagnia.
In compagnia di quelle di uno sportivo che lui amava e che ha sempre ammirato.
Certo, quello che Zoff racconta fa riferimento ai vertici. Ai massimi livelli. Al “top”. Alla Serie A.
Ma quando uno dà tutto se stesso per la sua passione, cercando di trasmettere agli altri, soprattutto ai giovani, i valori della pulizia e della rettitudine, si trova sempre e comunque ai vertici. Ai massimi livelli. Al “top”. Anche se non arriva a giocare (o ad allenare) in Serie A.

Ciao Flavio.
Grazie per essere stato quello che sei stato, come padre, come sportivo e come uomo.

E grazie anche a te, Dino, per questo libro e per le emozioni che mi hai regalato con la tua luminosa carriera.