Dino Zoff, portiere, allenatore, presidente, figlio, marito, padre, nonno e, soprattutto, uomo. |
Piccola premessa.
Non scrivo questo post per
fare una recensione del libro che Dino Zoff ha da poco pubblicato (Dura solo un attimo, la gloria - Mondadori, 2014).
Scrivo questo post perché da
tempo sento il bisogno di scrivere sul mio blog, dopo tanti mesi che non ho
aggiunto nemmeno una riga.
Qualche settimana fa ho
cominciato a scrivere una roba su alcuni aspetti della vicenda di Charlie
Hebdo, ma poi non l’ho conclusa.
Non era la cosa giusta per
ricominciare.
Stavolta invece sono sicuro di
avere l’argomento adatto. E chi avrà la pazienza di seguirmi, capirà il motivo.
Ma vi avverto… non mi interessa se ne verrà fuori una roba lunga.
E bene che vi ribadisca che
questo non è facebook (per fortuna o grazie a Dio).
Questo non è twitter o qualche
altro social del cavolo.
Questo è il mio blog.
E i post che ci scrivo sono
lunghi quanto mi pare e quanto basta.
Se non volete leggerli, non
tirate fuori la scusa che sono troppo lunghi.
Troppo lunghi per chi?
Troppo lunghi per cosa?
Troppo lunghi per quale legge o
norma o teoria?
Forse che Tolkien, quando ha
scritto Il Signore degli Anelli, si è messo il problema di non farlo troppo
lungo?
Fanculo ai social network e a
come stanno semplificando e amputando il mondo, le persone, il linguaggio e i
rapporti sociali. Fanculo all’ennesima potenza.
Quando ho qualcosa da dire, la
dico come sta bene a me. Comando io e non gli standard imbecilli di facebook o
di twitter.
Chi cavolo è il demente che ha
inventato la stronzata secondo la quale bisognerebbe dire quello che si ha da dire in meno di
150 caratteri? Fanculo anche a lui.
Fine della premessa.
15 settembre 2014, una data che non potrò mai dimenticare.
Il 29 agosto 2014 ho pubblicato
quello che, fino a oggi, era l’ultimo post.
L’ho scritto poco prima di
cominciare la (bella) avventura di Bimbi a Bordo, il festival della letteratura
per ragazzi che si tiene ogni anno nel comune di Guspini (VS). In quei giorni,
Flavio, mio padre, era in ospedale per l’ennesimo aggravarsi della sua
malattia. Era stato ricoverato il giorno di ferragosto.
Per tre giorni ho fatto su e giù
dal paese dove abito a Guspini, in modo da onorare i miei impegni di “ospite attivo”
del festival. E ancora, da Guspini all’ospedale di San Gavino, all’ora di
pranzo. Poi di nuovo a Guspini, nel primo pomeriggio e fino a tarda sera. Poi
di nuovo al paese per la notte.
Sono stati giorni di colori, di emozioni,
di sorrisi e di preoccupazioni. Sono stati giorni di stimoli continui. Quelli
che alla fine ti stancano dentro. Soprattutto se arrivano a fine estate, quando
non hai ancora staccato davvero la spina e vivi da circa due anni in una
situazione di lavoro drammatica e indecente, più che precaria. Una situazione
carica di problemi enormi, dubbi assassini e preoccupazioni gigantesche per te
e per chi vive insieme a te.
Qualche giorno dopo il festival di letteratura per ragazzi,
Flavio è stato dimesso e io sono partito per una pseudo vacanza di qualche
giorno. Una vacanza con “mille freni a mano tirati”, a causa dell’assenza
totale di disponibilità monetaria. Ma bella, nella sua assenza di pretese.
Momenti di serenità. Finalmente.
Al termine di quel breve
mucchietto di giorni, ecco la chiamata di mia madre. Flavio è di nuovo
all’ospedale. Sembra che la situazione, stavolta, sia ancora più grave.
Il viaggio in nave. L’arrivo in
Sardegna oltre la mezzanotte.
La cavalcata notturna in
macchina, da Olbia fino al sud dell’isola.
Quando arriviamo a casa, una
buona metà della notte è andata.
Una doccia. Meno di tre ore sul
letto col telefono a tiro.
Poi di nuovo a cavallo delle mie
quattro ruote per andare da Flavio, all’ospedale.
È il 14 settembre. L’estate 2014 non
ha nessuna intenzione di mollare. Anzi, sembra che sia ben determinata a durare ancora a lungo. E così sarà, infatti.
Arrivo all’ospedale con mia madre
e mia sorella.
All’ora di pranzo sembra più o
meno tutto sotto controllo.
All’ora di cena no. Per niente.
Non lo abbiamo mai visto così. Non
riesce nemmeno a parlare. Neanche una parola.
È il caso che un familiare
rimanga con lui.
Resto io.
Più o meno all’una di notte la
situazione diventa gravissima. Irreparabile.
All'inizio di quel 15 settembre Flavio non c’è più.
I pensieri.
I rimpianti.
I bocconi amari.
Il libro di Zoff.
Da quel momento, e per tanto
tempo, ho dovuto cambiare la mia lista delle priorità.
Ho dovuto lasciar perdere una lunga serie di cose, tra cui, naturalmente, questo blog.
E, anche quando è passata l’onda
di piena dei primi mesi, non ho più trovato il guizzo giusto per ricominciare a
scriverci.
Poi vengo a sapere che Zoff ha
scritto un libro.
Dino Zoff.
Il grande portiere. Il grande
capitano. Il grande mister.
Il grande silenzio, mi verrebbe
da aggiungere. Giusto per accostarlo scherzosamente al personaggio principale (il
muto) dell’omonimo film western di Sergio Corbucci datato 1969, con Jean Louis
Trintignant e Klaus Kinski.
Ma stavolta Zoff ha parlato. O
meglio, ha fatto parlare la sua penna o la tastiera del suo computer, aiutato,
come ci rivela lui stesso nei ringraziamenti finali, dal giornalista e
scrittore Marco Mensurati. Un amico di suo figlio.
Sono venute fuori parole degne di
essere lette. Perché uno che parla poco, di solito, quando parla ha qualcosa di
importante da dire.
L’ho acquistato.
L’ho letto.
Sarebbe piaciuto anche a Flavio.
Non è che lo immagino. Lo so.
Flavio aveva quella stessa
filosofia. Dallo sport alla vita, senza soluzione di continuità. Ciò che “io” sono in campo, sia
da giocatore che da allenatore, sia da presidente che da tifoso, è sempre una
parte di “me”. Di quel “me” autentico, che non ha bisogno di decidere come
apparire per manifestarsi. Basta che io lo lasci manifestare per quello che è.
E allora se il “me” è onesto,
manifesterà la sua onestà, anche quando gli eventi lo costringeranno a
escogitare una strategia per vincere a tutti i costi.
Se invece il “me” è un pagliaccio
stronzo, si manifesterà da pagliaccio stronzo. Esattamente come quando
Berlusconi diede dell’indegno al CT Zoff dopo la finale dell’europeo 2000 in
Olanda e Belgio, persa immeritatamente con la
Francia per via del golden gol di Trezeguet. Zoff ci aveva portati a
quell’europeo con un buon girone di qualificazione e un percorso di tutto rispetto
alle fasi finali, fino alla finalissima di Rotterdam contro la Francia.
Berlusconi che dà dell’indegno a
Zoff.
Incredibile.
Paradossale.
Rivoltante.
Ignobile.
Il mondo che va all’esatto
contrario di come dovrebbe.
Nemmeno il comico più arguto o il
matematico più brillante avrebbero potuto immaginare questa situazione. Né forzando
all’inverosimile una battuta (il comico), né chiedendo l’impossibile alla teoria
delle probabilità (il matematico). E invece…
Zoff con Enzo Bearzot, "Il Vecio" condottiero che guidò gli azzurri
alla conquista della Coppa del Mondo in Spagna, nel 1982.
|
La politica è politica. L'idiozia è idiozia. La dignità è dignità.
Intendiamoci.
Non mi sono mai occupato di
politica in questo blog. Non voglio cominciare certo oggi. E non ho intenzione di farlo da qui alla fine di questo post.
Per inciso, credo che neanche
Berlusconi, in vita sua, si sia mai occupato (o voluto occupare) di politica.
Si è occupato di tantissime cose. Un numero incalcolabile di cose. Ma non di
politica. Mai. Nemmeno all’apice della sua carriera politica.
La riflessione che ho fatto sulla
famosa frase che spinse Zoff a dimettersi dal ruolo di CT della nazionale di
calcio, l’ho fatta solo per soffermarmi sul lato umano di Zoff. Sul suo
carattere. Sulla sua sensibilità. Sulla sua qualità più indiscutibile, vale a
dire LA DIGNITÀ (ma tu guarda!).
E sul valore delle parole. Che
sono roba importante e come tali vanno pesate, scelte e proferite.
Zoff, Causio, il presidente Pertini e Bearzot giocano a Scopone Scientifico sull'aereo che riporta la nazionale in Italia, dopo la conquista del titolo mondiale nel 1982. |
L'anima dello sport.
Il libro di Zoff non è un
capolavoro.
A cominciare dal titolo che (sicuramente
è una mia fisima) ha qualcosa che non mi convince.
Certi passaggi probabilmente
avrebbero avuto ancora bisogno di qualche ripulita.
Ma non è questo il punto.
Il punto è che il libro mi è piaciuto. Mi è piaciuto molto.
E mi ha
fatto pensare a mio padre. Me lo ha, in un certo senso,
reso. Ridato. Restituito.
Il punto è che ci ho rivisto
dentro Flavio. Un uomo che, come il grande Dino, sognava un calcio diverso. In
mano a gente diversa. Sulle bocche (e sulle penne) di persone diverse.
Insegnava cose diverse ai suoi
allievi (centinaia), rispetto a quelli che sono diventati, oggi, gli obiettivi
e i "valori senza nessun valore" di questo sport. O di questo spettacolo, dato
che di sport non gli è rimasto quasi nulla. Uno spettacolo molto triste.
Mi permetto di copiare (qui
sotto, in corsivo) un passaggio del libro di Zoff.
Un passaggio che io ritengo di
immensa importanza per il significato di quello che esprime. Tutti gli uomini
di sport dovrebbero stamparsi queste parole a fuoco nel cervello e anche dentro
le palpebre. Così da poterle avere sempre presenti, anche quando chiudono gli
occhi.
"Ho sempre considerato il calcio un insieme di valori indiscutibili:
l’educazione, la crescita della persona come individuo singolo e come parte di
una squadra, la lealtà e la correttezza, l’autodisciplina, la capacità di
riconoscere i propri limiti e la voglia e la fatica di provare a superarli,
l’affannosa ricerca dell’equilibrio tra uomo e atleta. Questo ho sempre pensato
fosse il senso dello sport cui un giorno lontano, su un campo pieno di
pozzanghere, in Friuli, decisi che avrei dedicato la vita. E per questo ho
lavorato e vissuto, prima come uomo, poi come atleta e infine come «campione», termine che non è sinonimo di grande giocatore o di fenomeno, come lo si usa oggi, ma
un sostantivo ben preciso, che indica alcune qualità e prescrive un’infinità di
obblighi, a partire da quello di dare l’esempio a chi campione non è. Una
specie di condanna, se vogliamo dirla tutta.
Credo che se lo sport fosse fatto solo per lo spettacolo, come tutti
ormai pensano, non avrebbe senso mandare figli e nipoti a giocare al campetto
sotto casa. Perché quella attività non vale nulla, o comunque poco, di certo
non abbastanza: lo sport migliora l’uomo, lo spettacolo si limita a divertirlo.
Io la penso così. Mentre il mondo va in tutt’altra direzione, valorizzando
l’apparenza, la chiacchiera, la forma. Lo spettacolo, appunto. A scapito
della sostanza. Gli insulti a Bearzot, i riconoscimenti postumi e tardivi a
Scirea erano segnali chiari, che forse avrei dovuto cogliere prima in tutta la
loro potenza. E invece…"
I valori del calcio come sport.
I concetti (quasi antitetici) di
sport e di spettacolo.
Il concetto di «campione».
I concetti (questi sì,
assolutamente antitetici) di sostanza e di forma.
Tutte cose che oggi passano come
riflessioni pallose, vecchie e superate.
E che invece sono le chiavi di
volta per capire quello che non funziona e che ha fatto piombare il calcio in
una crisi irreversibile. Bisogna ripartire proprio da queste cose per
individuare tutto quello che va eliminato senza pietà (ed è tanta roba, ormai),
se si vuole di nuovo riportare il calcio in una dimensione di autenticità e di
bellezza.
Giocatori: al posto dei tatuaggi,
scrivetevi queste parole di Zoff sulla pelle.
Allenatori: prima di fare o di
dire qualsiasi cosa, perfino prima di pensare, leggetevi queste parole. E
leggetele anche ai vostri ragazzi nello spogliatoio, in campo, in ritiro.
Presidenti, dirigenti, politici e
giornalisti: anche voi, oltre a lavarvi i denti dopo ogni pasto, sciacquatevi
la bocca e il cervello con queste parole.
Lo spirito di queste parole
dovrebbe guidare tutte le persone che hanno a che fare con il calcio, a tutti i
livelli. Chi vive di calcio. Chi vorrebbe viverci e lotta per diventare un
professionista. Chi semplicemente si diverte con il calcio, giocato o guardato.
Chi parla e scrive di calcio.
E non solo di calcio, ma di sport
in generale.
La Serie A non c'entra.
Ho scritto questo post perché ho
riconosciuto mio padre in moltissimi passaggi del libro di Zoff.
Avrei voluto che Flavio lo
leggesse. Così certe sue amarezze si sarebbero sentite per lo meno in buona
(e illustre) compagnia.
In compagnia di quelle di uno sportivo che lui amava e che ha sempre ammirato.
In compagnia di quelle di uno sportivo che lui amava e che ha sempre ammirato.
Certo, quello che Zoff racconta
fa riferimento ai vertici. Ai massimi livelli. Al “top”. Alla Serie A.
Ma quando uno dà tutto se stesso
per la sua passione, cercando di trasmettere agli altri, soprattutto ai
giovani, i valori della pulizia e della rettitudine, si trova sempre e comunque
ai vertici. Ai massimi livelli. Al “top”. Anche se non arriva a giocare (o ad
allenare) in Serie A.
Ciao Flavio.
Grazie per essere stato quello
che sei stato, come padre, come sportivo e come uomo.
E grazie anche a te, Dino, per
questo libro e per le emozioni che mi hai regalato con la tua luminosa carriera.
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